L'Adriatico nella mitologia classica

L'Adriatico nella mitologia classica
Antichità
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di Mattia Vitelli Casella
Probabilmente la vicenda più conosciuta – ben al di là della ristretta cerchia degli specialisti – della mitologia antica è quella della guerra di Troia con i successivi avventurosi viaggi di ritorno dei suoi protagonisti: i nóstoi. Questi ultimi toccano anche il territorio oggetto di questo approfondimento, pur nella sua perifericità all’interno di una concezione geografica primitiva, che potremmo definire ellenocentrica, cioè imperniata sulla Grecia e sui luoghi frequentati o comunque noti ai suoi abitanti. In questa dimensione, gli eroi del mito avrebbero avuto, difatti, la funzione di apripista – mi si passi il termine – per i percorsi che poi sarebbero diventati usuali per gli Elleni: su tutte, le rotte della colonizzazione verso il mar Nero e verso l’Italia meridionale. Tuttavia, molte erano le motivazioni per cui un determinato luogo in un momento specifico della storia greca era visto come collegato ad un mito e, più precisamente, ad un viaggio del mito.
Sebbene si tratti solo di un’ipotesi avanzata in dottrina e tenendo sempre presente la cautela necessaria nell’accostarsi alla geografia omerica, il rilievo del personaggio impone di iniziare con un cenno al suo viaggio: stiamo parlando, difatti, del nóstos di Ulisse che in molti punti è presentato dalla tradizione come sovrapposto a quello di Giasone e degli Argonauti, svoltosi circa una generazione prima. Come vedremo, quest’intreccio si trova anche nel nostro ambito territoriale. Senza addentrarci qui nella vexata quaestio sul livello di attendibilità della geografia odissiaca, esistono in letteratura più proposte di ambientazione per il viaggio di Ulisse e per le sue tappe, che andrebbero viste come proiezioni dei diversi interessi politici che si susseguirono nelle varie póleis. Su questa base, Lorenzo Braccesi ha immaginato anche una localizzazione adriatica per le peregrinazioni del re di Itaca, che sarebbe la trasposizione delle esplorazioni compiute nel mare Adriatico dagli Eubei in un’epoca remotissima, prima che nell’VIII secolo a.C. si avventurassero nell’attraversamento del canale d’Otranto verso la Magna Grecia e la Sicilia, laddove poi non a caso si trovano le ubicazioni delle peripezie di Ulisse che si affermarono maggiormente: ad esempio, la sosta presso Circe al promontorio che da lei prese il nome.
Nella ‘Odissea adriatica’ di Braccesi, i vari episodi sono collocati per lo più nel settore meridionale del mare, più familiare ai Greci di quello settentrionale, ma in un caso si fa riferimento all’Istria. Quale? Si tratta della tappa presso il re dei Feaci, Alcinoo, la cui isola, Scheria, è già nella Grecità classica comunemente identificata con l’isola di Corfù; tuttavia, il favolista latino di età augustea, Igino (fab. 23, 1), narrando delle vicende degli Argonauti, afferma chiaramente che Medea e Giasone sarebbero stati raggiunti dal fratello di lei, Apsirto, presso il re Alcinoo, in Istria, nel mare Adriatico. Poiché anche Ulisse dopo gli Argonauti avrebbe visitato il paese dei Feaci, allora – conclude Braccesi – le sue peripezie, almeno secondo una delle tradizioni più antiche, ma rimaste meno note del mito, lo avrebbero condotto fin nell’Adriatico settentrionale, generalmente chiamato dai Greci mychòs toû Adríou kólpou, ossia il punto più interno del golfo adriatico, secondo la loro prospettiva di naviganti nel Mediterraneo. Ad ogni modo, l’Histria di Alcinoo, menzionata da Igino, potrebbe essere la penisola istriana stessa ovvero, ancora sulla base dell’analisi della leggenda argonautica, un’isola del Quarnaro sita di fronte ad essa. L’autore latino, infatti, nella stessa fabula (23, 5) racconta dell’insediamento di Colchi timorosi di rientrare in patria in seguito all’assassinio di Apsirto, su un’isola, cui diedero nome Apsoron, localizzata ancora in Histria e corrispondente all’attuale Lussino, sulla quale si ritornerà a breve.
È ora il momento di passare nel dettaglio al mito degli Argonauti. In età ellenistica, con Callimaco e Apollonio Rodio in particolare, si affermò una versione del loro viaggio di ritorno dalla Colchide che li avrebbe portati anche nel caput Adriae. La scelta del percorso serviva a soddisfare l’esigenza erudita di inserire tekméria (segni, tracce del passaggio) di derivazione corinzio-corcirese, probabilmente codificate e sistematizzate già dal poeta Eumelo di Corinto (VII-VI sec. a.C.) e si fondava su una nozione errata della geografia europea che sarebbe stata smentita solo con le conquiste alpine di età augustea. A partire almeno dal IV secolo a.C. – stando alle fonti disponibili – si riteneva, infatti, che il Danubio – in greco Hístros – fosse un fiume biforcato con un ramo che sboccava in Adriatico e uno nel Ponto: quest’errata concezione, al di là della scarsa famigliarità dei Greci con l’Europa centrale, era motivata dall’esistenza di antichissime arterie commerciali che mettevano in comunicazione tra loro i due bacini. Almeno dall’età arcaica, del resto, quando i Corinzi iniziarono ad avere interessi sia sull’attuale costa albanese che nella Grecia nord-orientale, gli Elleni erano venuti a conoscenza delle vie carovaniere che, attraversando la penisola balcanica, congiungevano il mare Adriatico, la Tracia e il Ponto Eusino. Successivamente, grazie al progressivo allargamento dei loro interessi, le nozioni geografiche dei Greci crebbero, estendendosi verso Nord, fino a comprendere i percorsi misti fluvio-terrestri lungo il Danubio e i suoi principali affluenti che giungevano fino alla costa nord-orientale dell’Adriatico o nell’attuale Austria. Più propriamente, dunque, riprendendo un’intuizione di Serena Bianchetti, nell’Istro si può vedere non tanto un singolo fiume, quanto “un complesso di arterie fluviali che costituivano un’importante rete di scambi commerciali” (Bianchetti 1990, p. 127). I citati percorsi sono definiti appunto vie ‘argonautiche’ da Lorenzo Braccesi, perché corrisponderebbero alla/e rotta/e della nave Argo nella versione del viaggio di ritorno tramandataci principalmente dalle Argonautiche di Apollonio Rodio nel III secolo a.C.
Se tentiamo di ricostruire il percorso che porta Medea, Giasone e i suoi compagni in Adriatico, pochi dubbi sussistono sulla diramazione pontica dell’Istro, reale e nota ai Greci; incertezze e variazioni, invece, concernono i tratti a monte delle Porte di Ferro e la diramazione adriatica. Tengo a precisare che, siccome le rotte commerciali in un ampio arco cronologico cambiarono a causa del mutare delle contingenze strategico-politiche, è inevitabile che il percorso dell’Istro sia variato a sua volta nella concezione di chi ne scriveva, tra l’età ellenistica e l’età augustea, quando alla fine venne sì accertata l’inesistenza del braccio adriatico del fiume, ma non si interruppe la credenza che gli Argonauti fossero pervenuti nel caput Adriae, come attesta Plinio il Vecchio (nat. 3, 128). Personalmente sono dell’idea che ci siano state tante ipotetiche diramazioni adriatiche dell’Istro quante erano le arterie commerciali che connettevano, attraverso valli fluviali, il bacino danubiano con l’alto e il medio Adriatico. Ma dove? Di primaria importanza per questa scheda è, difatti, l’identificazione di uno o più corsi d’acqua che potevano essere intesi come il braccio adriatico dell’Istro.
Non stupisce pertanto che in letteratura si siano moltiplicate fin dall’Umanesimo le proposte di identificazione, non raramente suscitate dall’orgoglio campanilistico. Riprendendo l’evoluzione storica delle vie argonautiche tracciata da Braccesi, egli ne individua una minor, che dal Danubio raggiungeva la Dalmazia centrale attraverso la valle dell’antico Naron, l’odierna Narenta/Neretva e poi una maior, che, invece, risalito il corso della Sava o della Drava e superate le Alpi, sboccava nell’Adriatico settentrionale attraverso le valli delle Giulie ed è chiaro che per l’età ellenistica ci dobbiamo orientare sulla seconda opzione che coinvolge in pieno il territorio tra la Livenza e il Quarnaro.
Almeno tre luoghi menzionati nella versione ‘danubiana’ del viaggio degli Argonauti debbono essere visti in quest’area: le isole Apsirtidi, cui abbiamo accennato con l’Apsoron di Igino, un’isola Elettride e la città di Pola. Secondo la narrazione delle Argonautiche – che si ritrova con qualche variante anche in altre opere, quali gli Aitia callimachei, la Biblioteca dello pseudo Apollodoro e le già citate Fabulae di Igino – la nave Argo viene inseguita dalla flotta dei Colchi, capitanati dal principe Apsirto e inviati da suo padre, il re Eeta, a riprendere la figlia traditrice e fuggiasca. Stando al poema di Apollonio Rodio, essendo gli Argonauti sfociati in Adriatico e trovandosi circondati dai nemici, Giasone con l’aiuto di Medea uccide Apsirto, che era stato attirato con l’inganno su un’isola sacra ad Artemide, al centro di un arcipelago (4, 452-481). In seguito, i Colchi, sconfitti, per paura di tornare in Colchide, lì si insediano, dando alle isole il nome del loro sfortunato principe (4, 514-515). Venendo ora alla ratio del mito, gli antichi, alla luce della omofonia, avevano identificato il luogo del delitto con l’isola di Lussino, che possedeva la locale denominazione di Apsoros o Apsaros, mantenuto dall’odierno toponimo Ossero, il quale ora appartiene alla cittadina nella parte meridionale dell’isola di Cherso e al monte più alto dell’isola lussignana. Tuttavia, quest’ultima era amministrativamente parte di Ossero, per cui l’insediamento e l’isola in antichità erano ambedue chiamati Apsoros o Apsaros – è interessante notare che ancora alla fine dell’‘800 era in uso il nesonimo (nome di isola) Ossero per Lussino –, mentre con il toponimo Crexi, invece, si indicavano sia l’isola che la città di Cherso. Tutto l’arcipelago chersino-lussignano, poi, era detto Apsirtidi – come attestano tra gli altri Strabone (2, 5, 20; 7, 5, 4) e Plinio il Vecchio (nat. 3, 151) – traendo così il nome dallo sfortunato fratello di Medea. Nello stesso contesto compare nel poema di Apollonio l’isola Elettride, definita la più settentrionale di tutte nonché rocciosa (4, 505; 580), che ritengo debba essere identificata con Veglia. Il toponimo in questo caso rimanda all’ambra – in greco élektron – che attraverso lunghe vie carovaniere miste fluviali e terrestri, dette appunto vie dell’ambra, dal mar Baltico giungeva negli empori dell’alto Adriatico per essere poi commerciata in Mediterraneo; poiché i percorsi e i luoghi di arrivo e di scambio di questo prezioso materiale erano più d’uno, anche in tal caso si può parlare di più isole Elettridi esistenti nella geografia antica: per questo motivo, ad esempio, il toponimo era localizzato pure nel delta del Po, dove era conferito alle isole formate dai depositi alluvionali dinanzi alle foci. Dal momento che, a mio parere, è coerente ambientare i fatti succintamente esposti nel golfo del Quarnaro, ritengo sia logico identificare anche il braccio adriatico dell’Istro con un fiume che lì sfocia, come suggerito già da autorevoli studiosi. Le due principali ipotesi, allora, sono l’Arsa e la Fiumara, sulla quale ultima orienterei la mia preferenza alla luce del fatto che la sua breve valle era in connessione, tramite un percorso misto d’acqua e di terra, con la valle della Kupa (antico Colapis) che confluisce nella Sava a Sisak. Credo che, dovunque si voglia localizzare l’Istro adriatico, come già intuito da Plinio il Vecchio (nat. 3, 128) e Pompeo Trogo-Giustino (32, 3, 14) in una fase di razionalizzazione del mito, nella Sava si debba vedere la prosecuzione dell’Istro pontico, poiché formava con il Danubio a valle di Belgrado un frequentato corridoio commerciale e ne condivide l’orientamento Ovest-Est.
Un’altra localizzazione nell’alto Adriatico è presente in letteratura per gli eventi appena descritti: anche se non tutta la dottrina è d’accordo, convengo con Marjeta Šašel Kos sul fatto che questa seconda ipotesi sia emersa, però, soltanto in un secondo tempo rispetto alla precedente e si sia affermata in una forma ‘razionalizzata’ del viaggio, una volta che era stata dimostrata l’inesistenza di un braccio adriatico dell’Istro e quindi non era più accettabile la versione tradizionale. Il transito degli Argonauti attraverso le Alpi Giulie fu, infatti, sovrapposto ad una nota e frequentata arteria commerciale fluvio-terrestre che collegava Aquileia con il bacino del Danubio, di cui Strabone parla per ben due volte e che sarebbe stata certamente nota ai Greci dalla fine del II secolo a.C. (4, 6, 10; 7, 5, 2). Stando alle sue parole, il trasporto si svolgeva su carri da Aquileia a Nauportus, l’attuale Vrhnika, dove le merci venivano trasferite su imbarcazioni: da lì, infatti, era navigabile la Ljubljanica, che confluisce nella Sava non lontano da Lubiana. Riproponendo la versione del viaggio di Apollonio in questo contesto, gli Argonauti, pertanto, avrebbero risalito questi fiumi per poi sfociare nell’alto Adriatico attraverso un Istro adriatico identificabile a questo punto con l’Isonzo o il Timavo; mentre non conosco collocazioni alternative per le isole Apsirtidi, l’Elettride, invece, potrebbe essere individuata nella scomparsa isola di Sant’Antonio sul litorale tra Monfalcone e il Lisert – verosimilmente insula parva o clara citata da Plinio (nat. 2, 229; 3, 151) di fronte alla foce del Timavo – in un contesto sfruttato come approdo e luogo di scambi commerciali fin dall’epoca protostorica e legato a vari culti, su cui si tornerà più in dettaglio. Come nel Quarnaro, anche qui terminava una lunga via carovaniera che attraverso l’Oder e la Morava e infine la valle dell’Isonzo collegava l’alto Adriatico e il Baltico da cui proveniva la preziosa ambra. Non a caso, un sistema portuale nell’area del Lisert è attestato anche dalle fonti di età romana.
Nella più volte citata trattazione pliniana, che tenta di razionalizzare il viaggio con le correzioni a quanto affermato dagli autori precedenti, gli Argonauti avrebbero sì risalito i corsi d’acqua fino a Nauportus, ma avrebbero poi caricato la nave sulle spalle per superare le Alpi e giungere sulla costa non lungi da Trieste. Questa ‘via argonautica’ fu accettata già da Marziale (4, 25, 5), che connette il Timavo e la limitrofa Aquileia alla leggenda, in quanto riconosciuta come la città nel cui territorio si trovava la foce del fiume; mi sento di affermare che l’auctoritas di Plinio il Vecchio e la particolarità geografica del fiume carsico probabilmente furono fattori determinanti per la sua fortuna nella tradizione successiva, nella quale fiorirono i riferimenti a questo percorso, tra cui la stessa fondazione di Emona, l’odierna Lubiana, ad opera di Giasone e dei suoi compagni. Ugualmente da qui deriva anche l’idea dell’insediamento di Colchi fuggiaschi ad Aquileia.
Il terzo luogo che in quest’area geografica è sovente connesso in letteratura alla saga argonautica è Pola; essa, però, a differenza di quelli visti finora, non figura nelle Argonautiche di Apollonio. Il poleonimo (nome di città) compare difatti nelle opere degli ellenistici Callimaco (fr. 11 Pfeiffer) e Licofrone (1021-1026) collegata all’ultima fase del viaggio degli Argonauti in Adriatico. Infatti, come già detto, i Colchi, una volta resisi conto di non poter riprendere la principessa Medea, come loro richiesto dal re Eeta, decidono di non far ritorno in patria e stabilirsi sulla costa orientale dell’Adriatico, dove la tradizione attribuisce loro varie fondazioni. Secondo Apollonio (4, 515-518), essi si stanziano sulle isole quarnerine, presso i monti Acrocerauni e sulle sponde di uno scuro fiume illirico, presso la tomba di Cadmo e Armonia, nel territorio degli Enchelei. A parte l’arcipelago cherso-lussignano, di cui si è già detto, le altre due collocazioni si trovano nel basso Adriatico: gli Acrocerauni, infatti, corrispondono all’odierna catena costiera Vargu Detar, nell’Albania meridionale, mentre il sepolcro del re tebano e della sua sposa era localizzato dalla tradizione nel territorio encheleo, nell’Illiria meridionale, presso il fiume Rhízous, un’indicazione errata per la profonda e articolata insenatura delle bocche di Cattaro. Poiché Callimaco pone Pola presso la tomba di Armonia e un Illyrikòs póros (= corrente o fiume illirico) e Licofrone la associa alla profonda corrente (indicata ancora con il termine póros) del Dízeros, credo che non ci sia alcun motivo per situare la città nella penisola istriana, come pure a noi sembrerebbe ovvio; piuttosto, sulla scorta degli scoli a Licofrone (1022; 1026), che definiscono Pola una città dell’Epiro e il Dízeros – l’idronimo potrebbe essere corruzione di Rhízous – un fiume d’Illiria vicino a Pola, vedrei quest’ultima come una fondazione sulla costa dell’Adriatico meridionale, il cui toponimo sarebbe andato poi perdendosi e confondendosi con la più nota colonia romana in Istria. È verosimile che allora le fonti di epoca romana, Strabone (5, 1, 9), Pomponio Mela (2, 57) e Plinio il Vecchio (3, 129), essendo ormai dimenticata tale tradizione ‘illirica’, abbiano connesso la notizia dell’antica città dei Colchi con l’unica Pola a loro nota, quella istriana.
Restano da trattare almeno altri due miti che ci riportano al mondo dei nóstoi: dopo che, pur se da parti opposte, avevano preso parte la guerra di Troia, difatti, sia Diomede che Antenore, per motivazioni diverse, si trovano a solcare il mare Adriatico, dove spesso le loro tracce si sovrappongono e, nel territorio oggetto di questo sito, questo avviene alla foce del Timavo, in epoca preromana il confine tra Veneti e Istri, quindi il confine orientale della provincia romana della Gallia Cisalpina. Anche i loro viaggi si possono storicizzare: secondo alcuni, sarebbero la addirittura testimonianza di rotte seguite da commercianti e popoli migranti in età tardomicenea, ma, più probabilmente, dall’età coloniale in poi le loro memorie mitiche segnalarono ambiti di interesse politico ed espansione mercantile di differenti poléis, Corinto innanzitutto.
Venendo al primo dei due miti, il Tidide, una volta rientrato in patria, ad Argo, trova una situazione molto differente da quella attesa: la moglie Egialea lo tradisce e il suo popolo lo ha dimenticato. A questo punto egli intraprende un viaggio in Adriatico, dove diviene un eroe della civilizzazione, insegnando ai popoli l’arte della navigazione e l’allevamento dei cavalli: infatti, molti luoghi, soprattutto nel medio e basso Adriatico, sono legati a lui dalla tradizione e recentemente è stata individuata dagli archeologi la sua tomba con annesso santuario sull’isola di Pelagosa Grande. Tale ritrovamento ha permesso di definire meglio il quadro dell’irradiamento del suo culto e del sotteso viaggio, almeno a partire dall’età arcaica. In aggiunta alla rotta di cabotaggio della costa orientale, è così possibile individuare due percorsi ‘diomedei’: il primo che, risalendo da Corfù, traversa l’Adriatico non al canale d’Otranto, bensì all’altezza della Dalmazia meridionale, toccando le isole di Làgosta, Pelagosa e Tremiti per proseguire lungo la costa italiana fino al delta del Po e il secondo che dalla Daunia – principale insediamento di Diomede in Occidente – solca il mare fino a capo Planca, incrociando il precedente appunto a Pelagosa, e risale lungo la costa orientale fino alla foce del Timavo. Sulla base dei luoghi legati all’eroe nell’Adriatico centro-settentrionale è probabile che la vicenda di Diomede sia stata ripresa e rivivificata nel IV secolo a.C. dall’interesse per questo bacino da parte di Dionigi I di Siracusa e dal suo rapporto con i Veneti, noti per i loro cavalli: l’eroe sarebbe diventato un antesignano della relazione positiva che il tiranno siceliota aspirava ad intrattenere con le popolazioni indigene e in questo caso l’allevamento degli equini sarebbe stato un importante elemento connettivo.
Al Timavo Strabone attesta, oltre a un porto, un santuario e un bosco sacro del Titide (5, 1, 8), che sono da vedere in relazione anche con le sue memorie nel delta padano, dove è ricordato come fondatore di Spina e Adria: infatti, una via endolagunare collegava questi due estremi della Henetiké, la terra dei Veneti, là dove si trovavano importanti poli emporiali tra mondo mediterraneo e Centro-Europa, stazioni terminali di due carovaniere provenienti dal Baltico. In più, entrambi i luoghi condividevano un aspetto di ‘mirabilità’ – riprendendo una definizione di Braccesi – agli occhi dei Greci, in quanto il territorio monfalconese si presentava in antichità in modo molto differente da com’è oggi: il Timavo, infatti, erompeva dal sottosuolo per il suo ben noto carattere carsico e a breve distanza si divideva in vari rami e si impaludava, sfociando in una sorta di laguna, detto lacus Timavi; lì, inoltre, sgorgavano acque calde, ritenute salutifere e ricordate, tra l’altro, da Plinio (nat. 2, 229; 3, 151) su un’isola situata di fronte alla foce. Da qui derivarono l’insediamento di un culto nel bosco e la presenza di terme in età romana, attestate ancora dalla Tabula Peutingeriana (segmento 3, 5) con il toponimo Fonte Timavi.
Strabone, inoltre, ricorda che esisteva una tradizione per cui Diomede sarebbe morto ed avrebbe ottenuto l’apoteosi nel territorio dei Veneti (6, 3, 9) nonché che essi gli tributavano un culto, rappresentato dal sacrificio di un cavallo bianco e dall’esistenza di due boschi sacri dedicati l’uno ad Era Argiva e l’altro ad Artemide Etolia (5, 1, 9). Unendo, com’è stato proposto da alcuni, le due menzioni dei boschi, allora in un’unica area sacra alla foce del Timavo sarebbero stati venerati Diomede e le due dee, testimoni di terre ritenute di elaborazione e diffusione della sua leggenda; secondo altri studiosi, invece, si tratterebbe di due luoghi differenti con le celebrazioni per il Tidide da localizzare piuttosto presso Padova.
Ad ogni modo, il santuario di Diomede alla foce del Timavo doveva essere un luogo di incontro frequentato in primis dalle popolazioni indigene; quindi, dai Greci con cui intrattenevano rapporti commerciali; e forse ebbe un nuovo risalto in epoca romana, in relazione alle guerre contro gli Istri. Sappiamo che presso le risorgive, all’estremo confine del territorio della colonia di Aquileia, il console del 129 a.C., Sempronio Tuditano, vittorioso contro le popolazioni dell’Adriatico orientale, aveva eretto un monumento commemorativo – presumibilmente un trofeo – dedicato al dio Timavo, verosimilmente all’interno del già esistente bosco sacro.
Quest’ultimo evento permette di collegarci all’ultimo mito da trattare: quello di Antenore. Secondo la leggenda, egli, re del popolo degli Eneti di Paflagonia, alleati di Troia, in seguito alla sconfitta, guida la sua gente verso l’alto Adriatico, dove si sarebbero insediati in quella che sarebbe diventata la terra dei Veneti (Henetiké in greco). È evidente che alla base del mito vi è la consonanza tra i due etnonimi e in epoca storica il viaggio potrebbe essere stato rielaborato in una città dell’Asia Minore con interessi in Occidente, quale Focea, oppure dai già citati Eubei, dotati di interessi sulle coste del Ponto e in Adriatico. Ad ogni modo, siamo certi che la vicenda era divulgata dalla tragedia Gli Antenoridi di Sofocle e divenne nota in ambiente ateniese. Forse già in epoca preromana, allora, la vicenda venne fatta propria dai Veneti e così si affermò il collegamento ben noto tra Antenore e la fondazione di Padova. Se il vettore per l’approdo del mito tra le genti dell’alto Adriatico furono proprio i commerci ateniesi con il caput Adriae, la ben nota navigazione endolagunare potrebbe spiegare anche il collegamento con il Timavo, come nel caso di Diomede, anche se per Antenore è noto con certezza solo in età romana. È interessante notare che esso è attestato dall’Eneide (1, 242-249), quando si narra che il re degli Eneti avrebbe fondato Padova (non entro qui nell’ipotesi di Braccesi di una Padova antenorea presso il Timavo, corrispondente ad Aquileia), dopo aver superato indenne le baie degli Illiri, i regni dei Liburni e la fonte del Timavo, da cui poi le memorie e le tradizioni aquileiesi, rappresentate soprattutto dalle due iscrizioni che menzionano gli Antenoridi, di cui gli Aquileiesi si consideravano discendenti. I riferimenti a Illiri e Liburni sembrano richiamare l’atavica pericolosità delle coste orientali adriatiche e quindi mi sembrerebbe più pertinente, come proposto anche in letteratura, connettere il monumento di Sempronio Tuditano al Timavo alla figura di Antenore – e ad una tradizione del suo viaggio diffusa nella letteratura tardo-repubblicana – piuttosto che a quella di Diomede. Dopo la menzione virgiliana, il fiume è più volte definito antenoreo nella letteratura, a riprova di un legame ormai affermato.
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