La pirateria adriatica prima della conquista romana

La pirateria adriatica prima della conquista romana
Antichità
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di Mattia Vitelli Casella
“Gli [scil. a Cleonimo] mettevano paura, sulla sua sinistra, il litorale italiano cui era quasi impossibile attraccare e, sulla destra, gli Illiri, i Liburni, gli Istri, popoli selvaggi e malfamati visto che per la maggior parte si dedicavano alla pirateria” (Liv. 10, 2, 4; trad. di G. D. Mazzoccato). Ho deciso di iniziare questo approfondimento con una citazione dalle Storie di Tito Livio, perché rappresenta, a mio parere, nella maniera più icastica l’idea delle popolazioni della costa dalmata che era diffusa nel mondo greco e romano. Il contesto è la spedizione operata nel 302 a.C. dallo spartano Cleonimo che, navigando in Adriatico da Brindisi verso Nord, si tiene lontano dalle due coste, perché entrambe, pur per motivi differenti, costituirebbero un pericolo. Degna di nota è la menzione delle etnie in Livio, che sono presentate in corretto ordine da Sud verso Nord coerentemente con la rotta seguita, rimandando ad un momento molto anteriore all’età di redazione dell’opera, allorché tutta la sponda orientale dell’Adriatico rientrava ormai nella provincia romana dell’Illirico. Se in quel frangente Roma era intervenuta perché preoccupata dalla presenza dell’esercito dello spartano nell’Italia meridionale, successivamente, tra la I e la II guerra punica, lo avrebbe fatto, invece, per tutelare gli interessi mercantili degli Italici e dei suoi alleati greci della costa adriatica orientale, depredati frequentemente dai pirati illirici.
Prima di tratteggiare brevemente i primi scontri di Roma con Istri ed Illiri, è opportuno chiedersi se questa visione tradizionale delle popolazioni dell’Adriatico orientale come dedite alla pirateria – a noi consegnata dalle fonti classiche – sia effettivamente adeguata o non risenta di un cliché stereotipato riguardante le genti considerate selvagge e insediate lungo coste frastagliate contro cui le potenze maggiori si sentivano sempre legittimate all’azione militare.
Se prendiamo ad esempio gli Illiri – il più meridionale dei popoli nel passo liviano, stanziati nell’acme della loro potenza tra la foce della Neretva e il Drin – nel IV secolo a.C. apparivano menzionati in fonti coeve in riferimento alle campagne di Dioniso I di Siracusa in Adriatico, ma senz’accenni ad attività piratiche. Ugualmente, non va dimenticato che in quell’epoca anche gli Etruschi e altri popoli italici erano noti per questa pratica nel medesimo bacino, per cui si deve essere cauti e non attribuire ogni riferimento in tal senso automaticamente alle genti stanziate sulla costa orientale. Certamente esse, abili nella navigazione e spinte dalla conformazione del territorio, compivano attacchi sul mare, così come ne sono attestati sulla terraferma ai danni di Macedoni, Epiroti e insediamenti greci, ma senza che si potessero configurare come azioni su larga scala: alcuni autori parlano a tal proposito di ‘pirateria di sussistenza’, altri di ‘piccola pirateria’.
Proseguendo verso Nord, per i Liburni è nota una fase di cosiddetta talassocrazia nel periodo arcaico (VIII-VI secolo a.C. circa) che li avrebbe portati a dominare gran parte dell’Adriatico fino ai confini dello Ionio. La nozione è stata recentemente oggetto di discussione in seno alla critica, ma è possibile intenderla non tanto in senso politico, quanto come un monopolio sui traffici mercantili: da questo fatto all’idea di azioni corsare al fine di appropriarsi delle merci trasportate, il passo non è lunghissimo, pertanto l’intensa attività di commercio marittimo può comprendere anche l’assalto ai carichi delle navi altrui, tenendo sempre in considerazione che in quelle società una linea molto sottile distingueva la pirateria e la mercatura. Indiscutibile erano le capacità di costruzione navale e di navigazione dei Liburni tanto che i Romani stessi, pur migliorandola, adottarono la liburna come imbarcazione. Ugualmente per gli Istri, stanziati nella penisola tra Timavo e Arsa, in età preromana si parla di una popolazione votata al commercio trasmarino e i rinvenimenti nelle necropoli di preziosi oggetti di fabbricazione greca e magnogreca potrebbero essere anche il risultato di assalti pirateschi. Da queste attività, in qualche modo usuali per le popolazioni rivierasche, almeno in una limitata dimensione, potrebbe esserne già derivata la diffusa reputazione negativa.
Ad ogni modo, tornando agli Illiri, la situazione sembra cambiare con le fonti di età ellenistica e romana, perché, oltre al passo di Livio citato in apertura, Polibio (2, 8, 1-3) in merito ai prodromi della prima spedizione riferisce di assalti frequenti e compiuti da tempo ai danni dei mercanti italici, tanto che Roma, ormai esasperata, allora inviò degli ambasciatori presso il regno di Illiria – in quel momento guidato da Teuta – che aveva, non casualmente, la sua base nel luogo più protetto di tutto l’Adriatico, ossia le bocche di Cattaro. Celebre e significativa la risposta data dalla regina agli inviati da Roma, che non era uso dei re impedire ai sudditi di fare bottino sul mare (Plb. 2, 8, 8), quasi si trattasse di qualsiasi attività economica. Ma da quando la situazione era diventata insostenibile per Roma e gli Italici? Un recentissimo contributo contribuisce a dare una risposta in merito: secondo Olga Pelcer-Vujačić e Nemanja Vujčić, che riprendono teorie precedenti, si può individuare un cambio di passo solo alla metà del III secolo, quando il regno degli Illiri – realtà statuale policentrica, allora egemonizzata degli Ardiei – complice la debolezza della Macedonia, raggiunse la sua massima estensione ed ebbe le forze necessarie – non solo navali, ma anche terrestri – per compiere una campagna organizzata fino al Peloponneso. Le popolazioni illiriche erano già in precedenza presenti e attive nell’area tra Montenegro e Albania; tuttavia, il loro atteggiamento verso le genti limitrofe era differente, tanto che i Greci, senza subire attacchi piratici, avevano potuto fondare numerose colonie nell’Adriatico meridionale, che, invece, furono conquistate dagli Illiri poco dopo la metà del III secolo a.C. sotto Agrone, dinasta degli Ardiei. Non si trattava più di occasionali scorribande ai danni delle tribù limitrofe, in qualche modo endemiche per le tribù rivierasche, bensì di una “guerra di corsa [organizzata] su base statale” (Brizzi 1997, p. 171), che veniva non solo avallata, ma addirittura promossa dai dinasti stessi come una comune azione militare ai danni di nemici, interessati alle aree limitrofe. L’attività piratica va considerata come un pilastro dell’economia del regno ardieo ed era realizzata con il naviglio che costituiva di fatto la flotta dello stato, la cui entità raggiunta è rivelata dagli antefatti della prima guerra illirica, quando essi nel 231-230 a.C. dapprima sconfissero gli Etoli e poi riuscirono a prendere la ricca città di Fenice, sulla costa dell’Epiro, costringendo a un trattato Epiroti e Acarnani: fu in quell’occasione che vennero depredati e uccisi molti Italici, motivo per cui Roma mandò l’ambasciata a Teuta.
Questo livello di azione fu tipico del regno illirico fino alla definitiva sottomissione di Roma con la sconfitta del re Genzio nel 167 a.C., senza che quest’ultima, comunque, abbia significato la cessazione di qualsiasi attacco, pur su piccola scala, al naviglio lungo la loro costa. Infatti, gli interventi romani, nella prima (229-228 a.C.) e nella seconda (219 a.C.) guerra illirica furono causati dall’estensione della sfera d’influenza del regno nemico che non solo depredava i mercanti italici, ma aveva sottomesso o minacciato città alleate dell’Urbe, anche in violazione dei trattati stipulati: alla colonia greca di Issa (Lissa odierna) si aggiunsero Epidamno-Durazzo, Apollonia e Corcira. In ambo le spedizioni, Roma non si limitò, difatti, a compiere operazioni di polizia marittima – come ci si potrebbe aspettare nel caso di azioni corsare –, bensì inviò le armate consolari e fu decretato il trionfo per celebrare vittorie che avevano, quindi, un valore strategico significativo. Attraverso di esse, Roma era entrata nello scacchiere politico e diplomatico greco: dopo la prima guerra illirica essa aveva ottenuto una sorta di protettorato sulle colonie adriatico-ioniche liberate ed era stata ammessa ai giochi istmici; dopo la seconda, invece, era entrata in un conflitto indiretto con il regno macedone, poiché i dinasti illirici, Demetrio di Faro e Scerdilaida, operavano in quel frangente con il sostegno degli Antigonidi.
Tuttavia, alla fine degli anni ’20 del III secolo a.C. il quadro geopolitico adriatico per Roma si complicò ulteriormente per ciò che accadeva a Nord: per la prima volta, infatti, questa si vide costretta ad intervenire nell’alto Adriatico, in quanto gli Istri erano stati indotti ad un’alleanza antiromana da parte di Demetrio di Faro, che ben conosceva la situazione politico-militare di Roma, a riprova del fatto che si trattava di una guerra pianificata e non di azioni sporadiche. Ancora una volta, il fatto scatenante era stato un ennesimo assalto al naviglio romano, per cui spesso si parla di un’altra operazione di repressione della pirateria. In verità, anche nel 221 a.C. i consoli dell’anno vennero incaricati di condurre gli eserciti contro gli Istri, che avevano depredato delle navi da carico romane di grano probabilmente destinato come rifornimento alle truppe impegnate dal 225 a.C. nella pianura padana contro i Galli Cisalpini. Pure in questa situazione la pirateria non si può derubricare a una mera attività economica per la sussistenza delle misere tribù rivierasche, dato che la risposta di Roma fu, come accennato, una risoluta operazione militare “anfibia” – per riprendere le parole di Ruggero F. Rossi – accompagnata da iniziative diplomatiche, tesa a pacificare il Nord adriatico e tutelare gli interessi della Dominante e dei Veneti, suoi fondamentali alleati.
Dopo l’intermezzo della II guerra punica e delle prime guerre nell’Oriente mediterraneo, lo scacchiere adriatico – ancora limitato ai suoi due estremi, l’Istria e la costa meridionale – ritornò nella politica di Roma negli anni ’70 del II secolo a.C. In seguito alle precedenti spedizioni, Roma, infatti, aveva insediato nelle due regioni dei re clienti, senza dover annettere e amministrare direttamente i territori. Questo garantì la pace per circa un cinquantennio, finché il dinasta illirico Genzio – della tribù dei Labeati, non più degli Ardiei –, accusato di aver ripreso gli atti di pirateria dei suoi predecessori, si alleò con Perseo nella III guerra macedonica e il regulo Epulone provocò il II conflitto istrico (178-177 a.C.) con il suo atteggiamento aggressivo nei confronti dei Romani. In verità, nel 181 a.C. Livio (40, 18, 2) riferisce di incursioni della pirateria istrica fino alla Puglia, che poi si rivelarono essere opera degli Illiri di Genzio. Ad ogni modo, la notizia era ritenuta credibile e avrebbe indicato la ripresa di una guerra di corsa su larga scala in Adriatico, corroborata dalla supposta partecipazione di un contingente istrico contro i Romani all’assedio di Ambracia del 189 a.C. Un aspetto non secondario che accomuna la sottomissione di Epulone e di Genzio è la sorpresa dei Romani dinanzi al ricco bottino a fronte di popolazioni dall’aspetto povero: viene, dunque, naturale supporre che si trattasse ancora una volta dell’esito delle estese razzie in mare.
Infine, più difficile è capire il rapporto dell’Urbe con i Liburni, comunemente considerati suoi alleati contro cui non sono noti conflitti, a differenza che con Illiri e Istri. La prima spedizione che li coinvolse – stando alle fonti – dovrebbe essere stata la campagna del 129 a.C., conclusasi con il trionfo del console Gaio Sempronio Tuditano e anche in tal caso in letteratura è stata proposta come motivazione la necessità di reprimere attività piratiche. Slobodan Čače in merito ha considerato anacronistica quest’ipotesi, perché i Liburni tra Arsa e Krka ormai attraversavano un processo di evoluzione della società che aveva portato alla crescita di centri proto-urbani, quali Zara, Aenona (ora Nin), Curicum (ora Veglia), Arbe ed Apsoros (ora Ossero) ed erano in contatto con Roma da più di un secolo. Al di là di generiche indicazioni, come la citazione liviana con cui abbiamo aperto la scheda, per il resto mancano informazioni su precisi atti di pirateria da parte loro prima della conquista romana. Si può solo supporre come fase parallela a quella dei regni illirico e istrico un’alleanza delle genti liburniche nel IV secolo a.C. che depredava i convogli greci in Adriatico – da cui la reputazione nelle fonti classiche –, mentre già nel secolo successivo la lora forza sarebbe andata scemando con l’incremento della potenza dei confinanti Delmati.
Se per il regno di Illiria, una delle basi della marineria era senza dubbio nelle bocche di Cattaro e un’altra era la sede di Demetrio, la colonia di Pharos, odierna Cittavecchia di Lèsina, non abbiamo indicazioni precise per gli Istri, ma la conformazione estremamente frastagliata della costa occidentale e meridionale della penisola ha portato alla proliferazione di ipotesi legate ad attestati castellieri, dal canale di Leme alla baia di Pola fino a quelle di Porto Badò e Medolino. Anche per quanto concerne le sedi della marineria liburnica, pressoché tutti gli abitati preromani, diventati poi municipi, disponevano di approdi che sfruttavano la morfologia delle coste: a titolo esemplificativo, si possono citare il porto di Ossero e la baia di Cherso, le insenature di Omišalj e Veglia, le baie di Novalja e Caska, il vallone di Fianona.
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