Forme di controllo del territorio in Età Repubblicana

Antichità



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di Mattia Vitelli Casella

 

La prima volta che l’Urbe mise piede nel quadrante nord-orientale dell’Italia fu in occasione della I guerra istrica del 221 a.C. condotta dai consoli P. Cornelio Scipione Asina e M. Minucio Rufo, ma bisogna ricordare il trattato con i Veneti sottoscritto già nel 225 a.C., il quale indica certamente un’attenzione strategica al settore diffusa nella classe politica romana.

Essendo da allora i Veneti, che occupavano il territorio costiero ad Oriente fino al fiume Timavo, alleati della Dominante, la loro presenza garantiva un sufficiente supporto a Est nei confronti dei pericolosi Galli della Cisalpina, contro cui si stava conducendo proprio in quel frangente una sanguinosa guerra (225-222 a.C.). La prima guerra istrica, tesa a reprimere le azioni di pirateria contro navi romane che trasportavano rifornimenti granari, senza dubbio fu ben accolta anche dai confinanti Veneti, che verosimilmente subivano anch’essi i taglieggiamenti contro i commerci nell’alto Adriatico. La spedizione aveva un’intenzione punitiva e monitoria allo stesso tempo, perché lo scopo principale era evitare che si verificassero altri fenomeni del genere.

Di conseguenza, al termine del conflitto vinto, Roma non passò all’occupazione diretta, in quanto non era interessata a espandere in una qualche forma la sua influenza, come, invece, sulla costa illirica meridionale, dove si trovavano le colonie greche, per il cui tramite era entrata nello scacchiere ellenistico. Peraltro, i territori della confederazione romano-latino-italica, che si era affacciata allora al territorio dei Galli padani, erano separati dal territorio istrico dall’ampio spazio occupato dai Veneti, con funzione di ‘cuscinetto’. Una volta distrutte nel 221 a.C. la flotta e le basi nemiche diffuse lungo la costa istriana, le fonti alludono ad una sottomissione delle genti locali, alcune con la guerra, altre con accordi, a dimostrazione di un quadro politico multiforme all’interno della penisola: ci si può figurare che all’interno di tale realtà l’approccio più risoluto sia stato rivolto alle tribù direttamente responsabili o mandanti delle azioni piratiche, mentre dei patti furono sufficienti con le popolazioni dell’interno verosimilmente dedite ad attività economiche di sussistenza. Comunque, si deve presumere al termine del conflitto un cambiamento politico, perché in occasione delle successive campagne militari gli Istri figurano come un’entità statale unica o per lo meno rispondente ad un re. Pare logico allora che in quell’occasione i consoli, nell’intento di assoggettare la penisola senza una forma di occupazione diretta, avessero individuato come partner per una forma di clientela la tribù di quel re Epulone che le fonti collocano a capo del popolo degli Istri in occasione della ribellione del secolo successivo; le stesse precisano, invece, che suo padre aveva garantito la pace, con presumibile riferimento al periodo della seconda guerra punica e della successiva riconquista della Gallia cisalpina per il quale non sono noti episodi di disturbo da questo settore, ormai messo in sicurezza da parte romana con accordi e con la deterrenza conseguente alle azioni belliche e alla distruzione di alcuni castellieri posti a controllo delle smobilitate basi marittime. A differenza di quanto accade per la seconda guerra istrica, non siamo informati sugli insediamenti indigeni annientati, ma possiamo immaginare che almeno una parte fosse là dove vi era la maggiore concentrazione abitativa della penisola ossia nella zona di Rovigno e di Pola.

L’anno successivo, nel 220 a.C., la nuova coppia consolare guidò una nuova spedizione nell’Italia nord-orientale, finalizzata a raggiungere l’arco alpino, al termine della quale Roma iniziò ad esercitare un controllo – almeno in una prima fase indiretto e mediato dalle popolazioni locali – fino ai valichi, la cui valenza economica, oltreché militare, non sfuggiva alla sua classe dirigente. In questo caso sono attestati esplicitamente dei rapporti amichevoli intessuti con le genti subalpine, tra cui gli studiosi hanno proposto di identificare i Giapidi – o almeno parte di essi – e i Carni. A questo frangente si potrebbe far risalire il concetto di un’area di influenza romana estesa fino al crinale delle Alpi, come sarebbe stato ribadito poi all’inizio del secolo successivo.

I Carni, forse durante la seconda guerra punica, forse qualche decennio dopo, riuscirono ad aprirsi la via fino alla costa, dove andarono ad occupare la porzione più orientale della Venetia, ad Est della Livenza, senza che questo, tuttavia, provocasse scontri con Roma, almeno sulla base delle nostre fonti. Per il resto i rapporti con le genti insediate nella Bassa Friulana dovevano essere improntati al rispetto dei ruoli, perché un momento di crisi si aprì soltanto con l’irruzione in pianura dei Galli Transalpini nel 186 a.C. Poco dopo, la Dominante avrebbe fatto un passo decisivo nel controllo del territorio: la deduzione nel 181 a.C. della colonia latina di Aquileia, formalmente uno Stato alleato non ricompreso nel territorio romano, serviva a ribadire quanto affermato dal Senato due anni prima in occasione dello scontro con i Galli, vale a dire che le Alpi dovevano essere considerate come confine quasi insuperabile (Liv. 39, 54, 13) fissato dalla natura tra Roma e le popolazioni celtiche, con le quali pure si intendevano intrattenere rapporti di amicizia incentrati su sfere di influenza.

Prima di passare oltre, è bene chiarire che nel mondo romano esistevano differenti tipologie – e conseguenti denominazioni – di comunità locali: potevano essere “di antica origine o di nuova fondazione” (Poma 2002, p. 102) e poteva variarne la condizione giuridica, in relazione al possesso o meno della cittadinanza romana. Con il termine municipio si intende comunemente un centro preesistente che veniva integrato nella comunità romana con la concessione della cittadinanza (municipio di diritto romano). Con il termine colonia si intende una città di nuova fondazione, creata da Roma grazie all’invio di coloni per l’appunto: quando i suoi abitanti avevano la cittadinanza, si trattava di una parte dello Stato romano (colonie romane), come per i municipi, ma esistevano anche – ed è il caso di Aquileia – colonie latine, formalmente città autonome, i cui abitanti godevano solo di alcuni privilegi nei confronti di Roma, ma che erano tenute a fornire all’Urbe un contributo in denaro e uomini. All’interno del territorio delle comunità esistevano agglomerati minori – potremmo parlare di frazioni all’interno del territorio comunale, se mi si passa il confronto ardito con la realtà attuale – quali vici, fora, castella.

Venendo alla seconda guerra istrica (178-177 a.C.), Livio (41.10-11) ci informa del fatto che nel secondo anno le singole tribù tennero un comportamento assai differente nei confronti di Roma: ripresa la guerra, infatti, la maggior parte di queste, vinte ancora una volta dalle armate consolari, si arrese e consegnò gli ostaggi richiesti. Al contrario, gli irriducibili con il re Epulone stesso si asserragliarono nel centro del regno, la piazzaforte di Nesazio, che, insieme a Mutila e Faveria, venne espugnata e distrutta, mentre i capi della ribellione furono decapitati e ben 5000 persone furono fatte schiave. Quanto all’identificazione dei siti, il primo (sul colle di Glavizza presso Altura) era in posizione sopraelevata e fruiva della sottostante insenatura di Porto Badò, mentre gli altri centri rimangono non localizzati e quindi le ipotesi si possono indirizzare sulle altre profonde insenature – con i limitrofi castellieri – della costa meridionale della penisola oppure di quella occidentale, posta proprio dirimpetto a quei Veneti che subivano anch’essi le incursioni corsare. Un’indicazione in quest’ultima direzione potrebbe venire dal successivo momento della pace: il vincitore e trionfatore Gaio Claudio Pulcro, infatti, nel 176 a.C. avrebbe installato delle piccole postazioni di alleati di diritto latino, secondo Matijašić sulla costa occidentale dell’Istria, secondo Rossi nel sito di Trieste. Comunque, mi appoggerei alla prima interpretazione e vedrei allora quel settore della penisola coinvolto anche nella più recente campagna militare a tutela della neofondata colonia. Sebbene non si possa pensare ad un trattamento uguale da parte di Roma di fronte all’atteggiamento delle varie tribù nel 177 a.C., gli Istri furono controllati ancora una volta senza una vera e propria conquista – al di là del limitato presidio latino costiero, che non rimase a lungo – ma con un accordo e con il deterrente militare, rafforzato dalla presenza della nuova deduzione coloniaria, peraltro arricchita con un supplemento nel 169 a.C., il cui territorio comprendeva un’ampia porzione del Friuli-Venezia Giulia fino alla fascia alpina. Quest’intervento era stato richiesto in Senato dagli Aquileiesi stessi nel 171-170 a C., in quanto si sentivano ancora troppo esposti alle minacce delle genti finitime, in primis gli Istri stessi. Com’è stato opportunamente notato da Matijašić, quanti tra loro erano “sopravvissuti [alla guerra del 178-177 a.C.] continuarono a vivere secondo le loro antiche tradizioni, ma disarmati e soggetti a tributo. […] Erano considerati una comunità sconfitta, ma a cui era accordato un certo livello di autonomia politica a patto che non minacciassero gli interessi dei Romani. E in tal modo per il momento pacificati” (Matijašić 2015, p. 306).  

Poco dopo furono stabiliti dei trattati di amicizia tra Roma e le altre popolazioni autoctone dell’arco alpino orientale, in particolare i Carni e i Giapidi. Questo genere di vincolo, applicato anche all’aurifero regno del Norico, permise alla Dominante, pur senza l’invio di suoi uomini, di includere nella sua sfera di influenza nell’arco di circa cinquant’anni dalla deduzione di Aquileia tutta l’ampia area compresa tra il territorio veneto, le Alpi e il Quarnaro. Al contrario, le spedizioni militari furono indirizzate prevalentemente nel II-I secolo a.C. verso il bacino saviano-danubiano e la costa dalmata, tenendo il Friuli-Venezia Giulia come preziosa base di partenza e di rifornimenti. Quanto all’Istria, purtroppo, lo statuto giuridico per tutta l’età repubblicana ancora ci sfugge: nel II secolo a.C., tuttavia, essa rientrava negli interessi di Roma soltanto nell’ottica di prevenire attacchi sul mare e non in vista di un’occupazione diretta con insediamenti pianificati: al massimo erano sufficienti pochi presidi sulla costa occidentale, secondo la misura adottata all’indomani della II guerra istrica.    

Solo successivamente – in una data ancora discussa, ma collocabile tra II e I sec. a.C. – fu creata da Roma la provincia di Gallia Cisalpina, che sarebbe stata soppressa con la conseguente incorporazione del suo territorio nell’Italia all’indomani della battaglia di Filippi (42-41 a.C.): allora il confine orientale fu spostato dal Timavo al Formio, l’attuale Risano vicino a Capodistria, e poi, in età augustea, all’Arsia (ora Arsa). Se nel 90 a.C., in seguito alla guerra sociale, gli Aquileiesi, fino a quel momento solo alleati di diritto latino, ottennero la cittadinanza romana con la trasformazione della colonia in municipio, nell’anno successivo con la legge Pompea le comunità indigene della Gallia Transpadana – e quindi anche del Friuli-Venezia Giulia – si videro riconosciuto il diritto latino tramite l’erezione dei preesistenti centri locali, quali Concordia, in colonie latine ‘fittizie’, ossia senza l’invio di contingenti esterni. Questo provvedimento, ad ogni modo, non cancellò le peculiarità locali, permanendo ancora una pluralità di situazioni amministrative che sarebbero andate ‘normalizzandosi’ soltanto con i successivi provvedimenti di età triumvirale ed augustea.

Non molto tempo dopo, nel 49 a.C., grazie ad un’iniziativa legislativa voluta da Giulio Cesare, anche ai Transpadani fu concessa la cittadinanza romana. A partire dall’età cesariana sorsero nuovi centri autonomi di pieno diritto, anche nella penisola istriana: colonie (Tergeste e Pola) e municipi (Concordia, Forum Iulii, Parentium, Iulium Carnicum), che almeno in parte della regione rappresentarono la fase successiva di precedenti colonie latine ‘fittizie’ o insediamenti minori, precedentemente inseriti come vici nell’ampio agro aquileiese. Nel caso poi di molti municipi un terzo passaggio sarebbe stata la promozione a colonia romana, da collocare non oltre l’età dei primi imperatori. Questo processo nella direzione di un omogeneo assetto del territorio, ormai ricompreso all’interno dei confini dell’Italia romana, non eliminò, tuttavia, situazioni peculiari, dal momento che, seppur in aree marginali, ancora in piena età imperiale sono attestate tribù non dotate della piena cittadinanza, ma semplicemente adtributae – potremmo dire assegnate come residenti – al centro di Tergeste.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

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