La cristianità dell’antica Aquileia

Antichità



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di Giuseppe Cuscito

 

         Nei primi decenni dello scorso secolo, la storiografia positivistica si era ampiamente interessata al problema della cristianizzazione del mondo antico e alla documentazione in grado di illuminare la portata del fenomeno missionario nei primi tre secoli della Chiesa. Particolare interesse hanno avuto gli studi allora avviati da Pio Paschini sulla questione marciana aquileiese, in riferimento alla prima evangelizzazione di Aquileia, allora capitale della Regio X, che l’antica tradizione locale, attestata la prima volta da Paolo Diacono, attribuiva all’opera dell’evangelista Marco, discepolo di San Pietro.

         Attraverso un’analisi rigorosa delle fonti, il Paschini aveva preso posizione nella controversia sull’autenticità di quella veneranda tradizione, che dalla metà del XVII secolo divideva gli studiosi, e aveva concluso che la tradizione marciana, sorta e maturata fra il VII e il IX secolo, era leggendaria e che le origini della Chiesa aquileiese dovevano collocarsi verso la metà del sec. III secolo. La posizione paschiniana incontrò il favore universale della critica e si può dire che sostanzialmente sia rimasta un punto fermo nella storiografia ecclesiastica.

         Come si è da più parti rilevato, con il Paschini si erano fatti strada criteri radicalmente  rigorosi nella valutazione dei dati riguardanti la storia del primo cristianesimo locale connessa con quella dei suoi martiri e, proprio perché rigida, la critica paschiniana ha permesso agli storici di utilizzare elementi omogenei  ed efficaci; ma è oggi opinione comune presso gli studiosi, attenti alle continue verifiche dell’indagine archeologica, che il rigoroso radicalismo, a cui nessuno si è sottratto, ha reso alcuni schiavi della scientificità in un’interpretazione limitata e limitante; perciò si è maggiormente convinti che, quanto più avari sono i documenti scritti, tanto più vigile debba essere l’analisi di tutti i materiali a disposizione. Infatti le nuove indagini, approdate a scoperte impreviste, hanno permesso di aggiungere prove ancor più attendibili sulla storicità di martiri già certi e di altri misconosciuti in grado di attestare una presenza cristiana sul territorio in epoca precostantiniana. 

         A cinquant’anni di distanza dal celebre lavoro del Paschini su La Chiesa aquileiese ed il periodo delle origini, Guglielmo Biasutti riapriva l’annoso e dibattuto problema del cristianesimo precostantiniano ad Aquileia, pubblicando nel 1959 un suo opuscolo su La tradizione marciana aquileiese, presto seguito da altri lavori destinati a tracciare nuovi percorsi d’indagine con cui la storiografia ufficiale avrebbe dovuto confrontarsi. Vi si trovano già anticipati i temi destinati a più ampio sviluppo nei lavori successivi a sostegno dell’asserita orientalità e specifica alessandrinità della Chiesa nascente di Aquileia. Quello studio del Biasutti si articolava in due parti: la prima si presentava come “critica della critica” radicale del Paschini e del Lanzoni, ossia come una serie di “interrogativi” e “suggestioni” che postulavano un “ridimensionamento” di tutte le posizioni critiche fino allora in voga; la seconda conteneva la parte positiva, volta a dimostrare il carattere “alessandrino-orientale” della primitiva cristianità aquileiese.   

         L’origine alessandrina della Chiesa aquileiese, sostenuta dal Biasutti, trovava il più solido fondamento nel passo ormai noto della lettera XII attribuita a Sant’Ambrogio e indirizzata agli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio a nome del concilio convocato ad Aquileia nel 381 per condannare gli ultimi epigoni dell’arianesimo illirico. Il passo, in una delle possibili traduzioni, suona così: “Infatti, pur avendo noi sempre rispettato l’ordinamento (dispositionem) e la dignità (ordinemque) della Chiesa alessandrina e, pur conservando in indissolubile legame la comunione con essa, conformemente al costume e alla consuetudine degli antenati, tuttavia […] chiediamo […]”: vi si chiedeva agli imperatori di radunare un concilio in Alessandria per dirimere le discordie insorte tra i cattolici di Antiochia e di Alessandria stessa; ma quel che al Biasutti interessava era poter dimostrare l’indissolubile legame tra la Chiesa di Aquileia e quella di Alessandria fin dall’origine.

Le tesi del Biasutti, fino allora a circolazione ridotta, conobbero la prima amplificazione grazie all’ampio e circostanziato saggio di Giancarlo Menis (1964), nonostante il suo tentativo di confutazione. Tale amplificazione fu provvidenziale perché, secondo Gilberto Pressacco, sortì il non previsto risultato di sollecitare nuove ricerche e di aprire nuove prospettive da parte di quegli studiosi che, fuori e dentro il Friuli, cercavano un nuovo percorso di studi sul primitivo cristianesimo aquileiese, fino allora pesantemente ipotecato dall’intervento positivista e minimalista del Paschini, che pure, cinquant’anni prima, aveva avuto i suoi meriti e non poco coraggio nell’affrontare criticamente una tradizione ormai consolidata come quella marciana.

         Accantonato dunque il problema dell’evangelizzazione come un fatto di cronaca, nel quale occorresse individuare il chi e il quando, il Biasutti ci ha insegnato a trasferire la questione delle origini del cristianesimo aquileiese sopra un piano qualitativo e ci ha sollecitato a fissare l’attenzione sulla sua matrice spirituale giudaico-cristiana e alessandrina. Una prima eco delle tesi biasuttiane è stata raccolta nel sintetico quadro tracciato nel 1972 sul cristianesimo primitivo di Aquileia da Sergio Tavano, che non escludeva una lenta penetrazione cristiana nell’Aquileiese attraverso circoli giudaizzanti e gnostici, e fors’anche alessandrini, e un suo lento maturare nell’ambito della nutrita colonia ebraica di Aquileia, “polmone che aspirava aria orientale […] e africana per tutta l’area padana”.

         Su questa linea interpretativa, la fonte forse più importante per conoscere la qualità del primo cristianesimo aquileiese è data dalla formula del simbolo di fede trasmesso da Rufino di Concordia nel 404 assieme a un ampio commento da cui il Biasutti per primo credette di poter trarre dei suggerimenti cronologici fino allora mai intravisti. La sua analisi s’incentra soprattutto sulle tre aggiunte che il Credo aquileiese presenta rispetto a quello romano e particolarmente sulla prima aggiunta, ossia sugli attributi dati al Padre di invisibile et impassibile con l’intento di contrastare l’eresia patripassiana, cioè quell’eresia trinitaria che faceva lo stesso Padre passibile o anzi crocefisso e che certamente non sarebbe stata senza ripercussioni in Aquileia, tanto da giustificare tale variante nel simbolo.

Inoltre ciò consentiva al Biasutti di supporre l’esistenza di un vescovo in Aquileia con l’autorità di mutare la formula del simbolo già nel primo periodo di tale eresia, cioè negli fra il 140 e il 190. E, poiché l’eresia patripassiana si innestava sull’idea di un Dio unico, inteso in senso giudaico, e comportava un travisamento del cristianesimo con un ritorno essenziale alla posizione giudaica, egli credeva di poter sostenere che nella Chiesa di Aquileia, tra il II e il III secolo, ci fosse ancora una notevole presenza di mentalità giudaico-cristiana che avrebbe trovato la sua collocazione cronologica nei primordi dell’evangelizzazione. Anche per questo motivo egli riteneva di poter sostenere, sia pure a livello di ipotesi di lavoro, la presenza nell’Aquileiese di una corrente evangelizzatrice di carattere non paolino e fortemente giudaizzante. Forse proprio per questa ragione l’apostolo Paolo, che pur si sentiva investito di una missione universale, avrebbe escluso Aquileia dai suoi viaggi missionari, fedele al suo piano pastorale dichiarato in Rom. 15, 19: “Da Gerusalemme e dai paesi all’intorno sino all’Illirico, tutto ho riempito del vangelo di Cristo, attento però ad evangelizzare dove Cristo non era ancora nominato, per non fabbricare sopra fondamento altrui”.

Secondo Pier Franco Beatrice, invece, le affinità alessandrine del cristianesimo aquileiese non risalirebbero al di là degli inizi del IV secolo, lasciando impregiudicata la questione delle sue origini. Molto più valide sarebbero le suggestioni sul carattere non-paolino della primitiva missione aquileiese, non necessariamente alessandrina e con reminiscenze asiatiche nella lavanda dei piedi praticata come rito immediatamente prebattesimale d’introduzione al lavacro vero e proprio.

Il ruolo egemone svolto da Aquileia “nel processo di recezione e di ibridazione di tanti stimoli esterni” anche sul piano religioso è stato messo in evidenza da Lellia Cracco Ruggini, quasi che il filtro fino allora rappresentato da Roma fosse divenuto secondario rispetto a flussi mediterranei ormai robusti che raggiungevano direttamente le coste settentrionali dell’Adriatico: lungo i medesimi percorsi sarebbero arrivati qui, con notevole precocità, i primi semi della cristianizzazione. Sebbene siano scarse le notizie precise e vaga la loro collocazione cronologica, a lei sembrava ipotizzabile, anche sulla scorta delle proposte del Biasutti, che il cristianesimo incominciasse a prendere piede ad Aquileia nel II secolo, giungendo dall’Oriente mediterraneo, pur in assenza di una sede episcopale anteriore alla metà del III secolo.   

Un termine tuttavia oltre il quale riesce difficile ammettere una presenza massiccia di cristiani nei quadri della società romana locale è offerto dagli avvenimenti del 238, in occasione della crisi massiminiana, che diede luogo nel momento di supremo pericolo a una dimostrazione non solo di fiducioso consenso al nome romano, ma anche di unanime fedeltà alla tradizionale fede religiosa. Viceversa solo dieci anni più tardi l’ideale cristiano poteva aver aperto più larghe brecce nella coscienza pagana, se accogliamo un’ipotesi di Giovanni Brusin per cui Aquileia, che pur doveva ai traffici transmarini la sua opulenza, tollerò che la statua di Nettuno eretta nell’ambito del porto fluviale fosse stata rimossa e lasciata andare in rovina, come c’informa un monumento epigrafico a questo proposito segnalato dallo stesso autore: dovette intervenire lo stesso imperatore Decio (249-251), persecutore dei cristiani e sostenitore dei culti pagani, per imporre all’amministrazione civica della città di rimettere a posto la statua del dio; tuttavia resta ancora da dimostrare nel provvedimento imperiale un sintomo della crisi religiosa pagana per i progressi del proselitismo cristiano.

Un altro dato talora addotto a sostegno della diffusione del cristianesimo nel corso del III secolo sarebbe offerto dal famoso follis di Massenzio, emesso nel 310 dalla terza officina della zecca di Aquileia col problematico segno della croce nel timpano del tempio della dea Roma al posto del’X che doveva indicare i vota suscepta per il primo decennio di regno. 

Non mancarono i martiri, pochi di numero dopo il cosiddetto tornado della critica, dei quali ad Aquileia erano noti i nomi e venerate le tombe: i Sermoni del vescovo Cromazio (388-408), il Martirologio Geronimiano, composto in area veneto-aquileiese intorno alla metà del V secolo e i reperti archeologici attestano appunto l’intensità del culto martiriale e la solidità dei ricordi più ancora delle tarde e incerte Passsioni con la narrazione del martirio.

Ma lo scambio di reliquie con altre Chiese fu presto sostituito dalla tendenza alla progressiva appropriazione, quando si pensi, ad esempio, che, tra il V e il VI secolo, un martire aquileiese come Crisogono fu, in certo modo, usurpato da Roma. Il Medioevo tentò una riorganizzazione dei culti tradizionali ma la mancanza di una diretta continuità di memorie e una sopravvivenza disordinata di culti diversi portarono ad appropriarsi di santi la cui venerazione era stata importata per le più svariate ragioni.

Gli undici martiri di Aquileia attestati dal Martirologio Geronimiano sono così distribuiti: Ilario e Taziano (16 marzo); Canzio, Canziano e Canzianilla (31 maggio); Proto (15 giugno); Ermacora e Fortunato (12 luglio); Felice e Fortunato (14 agosto); Crisogono (24 novembre). Si può dire che per ognuno di questi esistano appoggi di natura letteraria, epigrafica o monumentale riferibili per lo più al IV-V secolo, di cui è priva la sola figura di Ermacora, la prima vittima di quell’opera di revisione critica della leggenda marciana ultimamente capeggiata dal Paschini. Basti qui ricordare che tuttora la critica, mentre tende a escludere l’apostolato di San Marco nella città, è divisa nel considerare la storicità e la cronologia di Sant’Ermacora: dai più si ritiene tuttavia che la storicità di Ermacora come martire di Aquileia in epoca precostantiniana non possa essere seriamente respinta, anche se nulla di sicuro ci è noto dell’opera sua e del tempo in cui visse. Il suo inserimento nel Martirologio Geronimiano ci può attestare il suo martirio, ma assai più difficilmente confermare la sua condizione di protovescovo secondo il racconto della tarda Passione e la testimonianza del discusso catalogo episcopale. 

Viceversa ben altro giudizio possiamo dare sul gruppo dei santi Canzio, Canziano e Canzianilla, Proto e Crisogono dopo le campagne di scavo condotte a San Canzian d’Isonzo tra il 1960 e il 1969: oltre alle tracce di una prolungata venerazione , si è potuto constatare che quel sito sorgesse intorno alla tomba dei tre fratelli Canzii, di cui ha conservato fino ad oggi le probabili reliquie, mentre i sarcofagi di Proto e di Crisogono attestano la sepoltura dei più “aquileiesi” fra i martiri di Aquileia. Non mancano tracce di antichi monumenti cultuali anche per Felice e Fortunato, come per Ilario e Taziano, sebbene difettino prove decisive per collegarli alla personalità dei martiri. Le testimonianze archeologiche risultano dunque le più antiche e fra le meno contestabili, anche se non sono sempre le più esplicite.  

Per qualificare l’impegno religioso e culturale, l’intensità di vita spirituale, l’acuta sensibilità e la maturità estetica della prima comunità cristiana di Aquileia appena uscita dalla grave prova della persecuzione dioclezianea, basti considerare l’architettura cristiana primitiva della metropoli altoadriatica, dove si palesano l’originalità, la ricchezza e la pregnanza dottrinale dei suoi mosaici pavimentali.

Nel momento epocale in cui Costantino concesse libertà alla Chiesa (313), reggeva la comunità cristiana di Aquileia il vescovo Teodoro, che i tardi cataloghi episcopali pongono al quarto o al quinto posto nella serie dei vescovi. Se sono discussi gli anni del suo episcopato (308-319?), data fissa della sua vita è la partecipazione al concilio antidonatista di Arles nel 314, ove sottoscrisse gli atti sinodali assieme al suo diacono Agatone. Ma, più che la partecipazione a quel concilio, fanno testimonianza di lui le costruzioni monumentali che, con il contributo dei fedeli, ebbe la possibilità di innalzare subito dopo la libertà della Chiesa, come segnala l’epigrafe dedicatoria sul pavimento musivo dell’edificio di culto; nella traduzione italiana essa dice: O Teodoro beato, con l’aiuto di Dio onnipotente e del gregge a te affidato dal cielo, hai fatto ogni cosa e gloriosamente dedicato.

Il più antico complesso episcopale sorgeva qui, come altrove, in un quartiere urbano presso la cinta muraria tardoantica ed era costituito, secondo il primitivo modulo dell’architettura cristiana dell’Alto Adriatico, da due aule parallele senz’abside disposte in direzione est-ovest, collegate da un ambiente intermedio. Ne risultò un impianto concepito organicamente con ampiezza di vedute e con una calcolata distribuzione di tutte le strutture in un grande isolato rettangolare di m 65 x 38. Delle tre aule teodoriane, quella intermedia è l’unica a non essere pavimentata in mosaico, ma semplicemente in cocciopesto, così da poterne rilevare una funzione secondaria rispetto a quella delle altre due.

È proprio il pavimento musivo, scoperto casualmente all’inizio del secolo scorso, l’elemento di maggior interesse storico-artistico dell’insigne monumento: è tutta la primitiva comunità cristiana aquileiese che qui ancor vive con le sue certezze, con le sue speranze, con gli stessi suoi volti. Per esprimere questi nuovi contenuti, gli artisti si sono serviti di immagini consuete all’arte del IV secolo, derivandole dal repertorio pastorale e marino dell’arte ellenistica, dal simbolismo misterico del culto di Mitra, dall’iconografia imperiale del trionfo e da quella cristiana delle catacombe.

Dal IV secolo dunque il campo della conoscenza si illumina per la copia delle testimonianze archeologiche a disposizione, per la diffusione del culto delle reliquie apostoliche e martiriali e dei relativi santuari, per il rumore delle controversie archeologiche  e per il recupero relativamente recente di una fonte insostituibile quale ormai si presenta la produzione letteraria del vescovo Cromazio (388-408), oratore sacro, esegeta e quasi certamente costruttore di una nuova basilica sul nucleo episcopale teodoriano. Per quest’epoca siamo in grado di seguire i rapidi sviluppi della comunità cristiana sia indirettamente, attraverso la considerazione degli edifici di culto e del repertorio iconografico, inteso a confessare con un simbolismo non sempre immediato il mistero della redenzione cristiana, sia direttamente, attraverso la lettura delle fonti che documentano con particolari di nomi e di date le vicende dell’arianesimo in Aquileia, le prime esperienze di vita ascetica, sicuramente incrementate dai ripetuti passaggi in Occidente di Atanasio di Alessandria, il grande campione della fede nicena, con una sosta ad Aquileia nel 345, e il momento di maggiore fioriture del cristianesimo aquileiese tra il IV e il V secolo.

Di una forte corrente ascetica e forse anche di una scuola teologica qui fiorita nella seconda metà del IV secolo abbiamo sicure notizie da due tra i più grandi scrittori ecclesiastici del tempo, Rufino di Concordia e Girolamo di Stridone, che qui soggiornarono. La personalità più eminente del clero aquileiese fu senza dubbio Cromazio, animatore di quel chorus beatorum (la schiera degli ecclesiastici) di cui parla con nostalgico entusiasmo Girolamo. Gli scritti del vescovo aquileiese illuminano la ricca e originale personalità dell’autore e la cultura dell’ambiente cristiano di Aquileia. Pur con intenti prevalentemente pastorali, egli sa evitare ogni moralismo tedioso e presenta ai suoi fedeli il mistero di Cristo e della Chiesa, il caeleste mysterium appunto, con particolare insistenza sul fondamento trinitario della fede cristiana e sul mistero delle due nature in Cristo.

Agli uomini di questo ambiente culturale va riconosciuto il merito di aver portato un decisivo contributo alla soluzione della crisi ariana in Occidente, quando si pensi alla parte avuta dal vescovo Valeriano e da Cromazio, ancora presbitero, nel concilio di Aquileia del 381 e negli anni che seguirono per sostenere con successo la causa dell’ortodossia contro l’arianesimo che negava la divinità di Cristo.

Il grado di cristianizzazione raggiunto dall’ambiente aquileiese nel corso del secolo IV trova puntuale verifica anche nel formulario e nell’apparato decorativo dell’epigrafia funeraria, dettato quasi sempre con semplicità e immediatezza da una coscienza ormai cristianamente orientata. Mancano tracce di fermenti cristiani nei luoghi più lontani dal centro episcopale per epoche anteriori alla seconda metà del IV secolo, quando il vescovo Fortunaziano pensò di compilare un commento ai Vangeli nel sermo rusticus, secondo l’informazione di Girolamo oggi confermata dal ritrovamento del testo.

Il panorama si oscura rapidamente dopo l’invasione attilana del 452, quando i vescovi si trovarono a dover affrontare la grave situazione sociale in cui si dibatteva la popolazione in mezzo a tante calamità e a destreggiarsi fra le sottili insidie della politica gotica, romana e bizantina, mentre andavano così maturandosi antagonismi e fermenti autonomistici. Le conseguenze morali e sociali dell’invasione di Attila sono riflesse nella celeberrima lettera Regressus ad nos, indirizzata da papa Leone Magno al metropolita aquileiese Niceta il 21 marzo 458 per rispondere ad alcuni quesiti postigli tramite il diacono romano Adeodato passato per la Venezia.

Anche se non siamo in grado di seguire dettagliatamente la grande epopea della prima evangelizzazione di queste terre, la vastità della provincia ecclesiastica aquileiese sul finire del VI secolo, documentata dalle sottoscrizioni dei vescovi partecipanti al concilio di Grado (579), e l’adozione del titolo patriarcale, allora rivendicato dal metropolita di Aquileia forse in connessione con la tradizione marciana, sembrano l’esito e il riflesso di una feconda attività missionaria svolta dalla Chiesa aquileiese nei secoli precedenti.

                                                    

 

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